Il libro di Anselmo Grotti invita, anche nel titolo, a collegare cura e comunicazione ("I care" riferito alla comunicazione come cura di ciò che è comune, prima ancora che agli strumenti di comunicazione). L'autore insegna Sociologia e Teoria della comunicazione presso l'Istituto superiore di scienze religiose di Arezzo e cura una rubrica sul sito Dialoghi.net.
Pochi libri riescono a dire tante cose, intrecciando continuamente il piano dell'informazione - precisa e ricchissima - sulla rivoluzione digitale in cui siamo immersi con un richiamo costante alla sfida educativa, che deve tener conto di che cosa significa crescere e vivere nella infosfera.
Dal libro (presentato venerdì 9 marzo all'Istituto superiore di Scienze religiose di Arezzo) estraggo alcune affermazioni:
- Rispetto alle generazioni più mature dei cosiddetti "immigrati digitali", per i "nativi digitali" «il lento apprendistato intellettuale, la sistematica lettura dei testi, l'ascolto ininterrotto di una argomentazione e di una dimostrazione sono non solo lontani ma spesso incomprensibili» (p. 8)
- «Che cosa capirebbe della nostra terra un ipotetico abitante di un pianeta alieno, che avesse a disposizione i programmi televisi per fare uno studio su di noi? Forse non saprebbe quasi che esistono interi continenti, come l'Africa. Non saprebbe mai che esistono certi lavori, o certi modi di considerare la vita» (p. 22)
- «L'intrattenimento trattiene, immobilizza, ripete ossessivo "non cambiate canale, restate con noi, rimanente nel limbo, non prendete decisioni". La formazione, la cura invitano all'autonomia: e-ducare, portar fuori» (p. 58)
- «La comunicazione è un dato fondativo della persona umana», consente «la condivisione di un vero e propriopaesaggio mentale. Una interazione tanto ricca quanto fragile: affidata allo scandalo della libertà umana è in grado di ospitare parabole di condivisione ma è anche minacciata da manipolazioni e colonizzazione delle coscienze» (pp. 162-163)
- «Il motto fascista era "me ne frego", un atteggiamento ben presente anche oggi. Don Milani insegnava che era meglio preferire il motto I care, "me ne importa". È il paziente processo della formazione, l'uscita dal sé, l'apertura all'altro, attraverso la comunicazione» (p. 166).